C’era un tempo in cui la felicità entrava in casa in una scatola di cartone. Bastava scartare un Big Jim, vedere una pista Polistil già montata in salotto, toccare la superficie liscia di una figurina Panini. Negli anni ’80 non si giocava per passare il tempo: si giocava per vivere storie, creare mondi, diventare grandi un pomeriggio alla volta.
Non avevamo bisogno di tutorial, di connessioni, di app. Bastava accendere la fantasia e guardare un Super Santos volare sopra un cancello per sentirsi vivi. Oggi quei giocattoli sono oggetti da collezione, ma allora erano pezzi della nostra identità. E forse lo sono ancora.
Il Super Santos: un pezzo d’estate che non si bucava mai
Ti bastava scendere con quel pallone arancione sottobraccio e la partita cominciava. Nessuna regola scritta, solo zaini a fare da porte, il primo che arrivava in porta, e quel profumo di plastica che sapeva già d’estate.
Il Super Santos, con le sue righe nere, era il re dei marciapiedi. Leggero, instabile, ingovernabile con un po’ di vento. Ma sapeva volare davvero. Ogni tiro era una traiettoria impossibile, ogni goal un urlo liberatorio. Quando si bucava — e succedeva spesso — si riempiva d’acqua, diventava un mattone, ma nessuno lo buttava mai.
Ancora oggi, vederne uno legato al manubrio di un motorino fa scattare una scossa al petto. Perché non era un semplice pallone. Era la promessa di una giornata infinita, senza orari né notifiche.
Tony Tammaro ci ha scritto anche una bellissima canzone chiamata appunto Supersantos.
C’era pure il Tango che costava ben 5000 lire era bianco e nero bellissimo ma non potevamo permettercelo lo usavamo solo nelle grandi occasioni. Sembrava quasi un pallone di cuoio.
Big Jim, Barbie, He-Man: quando l’eroe lo sceglievi tu
Ogni bambino aveva la sua squadra. I miei compagni giocavano con i Masters of the Universe, altri con Action Man, ma io ero da Big Jim. Quello col braccio che faceva il colpo di karate. Lo vestivi da astronauta, da pilota, da comandante. Aveva una moto, un gommone, un cavallo. E una casa più attrezzata della mia.
Barbie, invece, cambiava identità ogni giorno. La versione sposa, la sirena, la principessa, l’infermiera. E sempre quei vestiti impossibili da mettere senza stropicciarla. Ma anche lì, bastava immaginare, e tutto diventava realtà.
Poi c’era He-Man. Forte, muscoloso, con quella spada dritta al cielo: “Per il potere di Grayskull!” Lo urlavamo anche noi, nel cortile, con bastoni raccolti da terra. Skeletor finiva sempre sconfitto. Perché l’eroe, alla fine, vincere doveva.
Le piste Polistil: adrenalina, incidenti e… polvere
Montare una pista Polistil era un evento. Si spostavano i mobili, si cercava la presa più vicina, si pregava che tutte le curve coincidessero. Poi si cominciava: click-click, un giro di prova, via!
Ma le macchinine non andavano dritte quasi mai. Bastava poco: troppa velocità, un binario sporco, una curva secca… ed ecco l’uscita di pista. Volavano sotto al divano, si incastravano nei termosifoni. Allora si pulivano con un fazzoletto, si passava la carta vetrata sui contatti, si soffiava dentro al motore come se fosse un flauto magico.
Quando funzionava, era magia pura. Le notti di Natale finivano così: a sfrecciare nel salotto mentre gli adulti mangiavano panettone. E se tuo padre ti aiutava a regolarle, eri il bambino più felice del mondo.
Jeeg Robot e Daitarn 3: calamitati e indistruttibili
Se mi chiedi qual era il mio robot preferito, ti rispondo senza pensarci: Jeeg Robot d’Acciaio. Quello con i pezzi magnetici che si staccavano da tutte le parti. Le gambe volavano via, le braccia si giravano al contrario, la testa si lanciava come un proiettile.
Era impossibile perderne i pezzi — eppure ci riuscivamo sempre. Ma il bello era proprio quello: ricomporlo come un puzzle, ogni volta con nuove combinazioni. E quando riuscivi a farlo restare in piedi con tutti i pezzi giusti… era come vincere il SuperEnalotto.
Poi c’era Daitarn 3, elegante, gigantesco, con la sua sigla che ancora oggi ti scorre nelle vene: “Il nemico ha vinto… ma lui no!” Era più di un robot: era un compagno di gioco silenzioso, sempre dalla tua parte.
I giochi da tavolo: alleanze, dispetti e partite infinite
La scatola si apriva, le pedine si spargevano sul tappeto, le regole si dimenticavano. Monopoli era una guerra psicologica. Si comprava, si contrattava, si barava. “Ti do Vicolo Corto e Imprevisti se mi lasci libero da Parco della Vittoria.” Nascevano alleanze, tradimenti, risate a crepapelle.
Con Risiko si dichiaravano guerre mondiali. Le battaglie per la Kamchatka duravano pomeriggi interi. E poi L’allegro chirurgo, con quel naso rosso che lampeggiava, le pinzette elettriche, il cuore che batteva ogni volta che toccavi il bordo.
Non c’erano tempi prestabiliti. Si giocava finché faceva buio, finché qualcuno diceva: “Domani si continua da qui”. Oggi quei giochi sono tornati di moda. Ma quelli veri avevano pezzi mancanti, scatole rovinate, regole scritte a penna. Eppure erano perfetti così.
Figurine e sorpresine: la valuta dell’infanzia
“Ce l’ho, ce l’ho, mi manca.” Bastava quella frase per trasformare un angolo del cortile in una borsa valori. Le figurine Panini erano oro. Si facevano scambi, si bluffava, si raccontavano leggende metropolitane (“dicono che l’ultima non esce mai”).
Il pacchetto si apriva piano, con il cuore che batteva. Quando trovavi una brillante, la facevi vedere a tutti. E la incollavi male, ovviamente, storta. Ma era bellissima comunque.
Le sorpresine degli ovetti erano un altro mondo. Pupazzetti montabili, animali in miniatura, giocattoli minuscoli. Oggi li chiamano “gadget”. Ma noi li chiamavamo tesori.
Robot, macchinine e trasformazioni che non finivano mai
I Transformers erano magia meccanica. Da camion a robot in tre mosse. Ma sbagliavi una piega, e il braccio restava incastrato. Quindi via di pazienza, prove, tentativi. Non era solo gioco: era ingegno, precisione, sfida personale.
Anche le macchinine avevano vita propria. Quelle con il freno a mano, quelle con la carica, quelle che si rompevano ma continuavi a far girare lo stesso. C’erano quelle da corsa e quelle “da tamponamento”. Ogni graffio raccontava una storia su asfalto immaginario.
Perché oggi li cerchiamo ancora
Non è solo nostalgia. È bisogno. Bisogno di rallentare, di toccare qualcosa di vero, di raccontare ai nostri figli che giocare non era un gesto passivo, ma un’avventura attiva. Oggi collezioniamo quei giocattoli perché non vogliamo perdere il bambino che siamo stati.
Ogni volta che troviamo una pista Polistil funzionante, un Jeeg completo, una figurina rara… non stiamo solo comprando un oggetto. Stiamo riabbracciando un’emozione che ci mancava da anni.
Se anche tu hai avuto un Super Santos, sai di cosa parlo
E se queste immagini ti hanno toccato il cuore, allora c’è un libro che ti sembrerà scritto apposta per te. “Quando il mondo era senza Wi-Fi” non è solo un racconto nostalgico. È un viaggio nei tuoi ricordi più veri. E forse anche in quelli che avevi dimenticato.